giovedì 28 giugno 2012

Eternità del presente



A Boston avevo visitato una mostra di A. Katz e anche a St. Ives, nella Tate Galery (Cornovaglia) c'era una esposizione delle sue opere. E veniva presentato il seguente video  


E veniva ricordata questa frase del pittore: 

"I'm trying to get that sense of present tense, that sense of eternity being in every moment"

Per una rassegna delle pitture più celebri di Katz vedi 



Merito e talenti

In questi giorni, proseguendo con la lettura, ho continuato la riflessione ispiratami dal libro di Hyde sul dono. E nel frattempo seguo il dibattito sul riconoscimento del merito nel sistema scolastico. Vorrei proporre due osservazioni. La prima riguarda la questione del valore inteso come qualità di una persona. Possiamo dire che una persona è di valore, che una persona è un valore, che una persona è dotata, che una persona ha dei talenti (è "talentuosa"), in inglese, poi, una persona dotata si dice una persona "gifted", cioè che ha ricevuto un dono. Tenendo conto che l'espressione persona che ha dei talenti (o di talento o talentuosa) si riferisce alla parabola del vangelo di Matteo  (25, 14-30) in cui un signore affida dei talenti ai suoi servi e li premia, al suo ritorno, sulla base di quanto li hanno saputo valorizzare (magari mettendoli in banca per trarne gli interessi), punendo severamente quel servo che aveva ricevuto un talento e per paura di perderlo lo aveva nascosto sotto terra. 
Ma vorrei concentrarmi sulla differenza/similitudine tra dote e dono (persona dotata e persona "gifted"). Sia la dote che il dono perdono significato se utilizzati come proprietà privata. La dote non era data per essere venduta, ma magari per essere trasmessa alle altre figlie, o per essere utilizzata per la nuova famiglia. Se i beni dati in dote o donati vengono venduti si interrompe il circuito sociale che li rende una forza trasformativa. 
Riconoscere che una persona è gifted significa quindi anche riconoscere una responsabilità di restituzione, di messa in circolo, di valorizzazione, nelle forme che quel dono richiede. I "propri" talenti (competenze?) se non sono ridotti a proprietà privata sono una forza trasformativa e non interrompono il flusso sociale del dono. Nel "merito" vi è una componente gratuita che non è premiabile, ma che anzi impone una responsabilità, una riflessività di restituzione per tenere vivo il dono e quindi il talento nella comunità di riferimento. Questa è la saggezza dietro queste espressioni, che rimanda al concetto di stewardship, cioè anche noi non siamo proprietari dei nostri talenti, essi ci vengono affidati, dobbiamo rispondere di essi. Essi non ci sono affidati per merito, ma per grazia. quindi non dovrebbero essere regolati dal mercato, non sono capitali privati. 
Una altro aspetto è quello del riconoscimento dei meriti come valore. Nelle ricerche sociologiche che ho fatto nel mondo del lavoro emerge con sistematicità che una delle ragioni maggiore di scontento è la mancanza di riconoscimento della propria professionalità e del proprio contributo , che si traduce spesso anche in una continua amarezza, frustrazione,  burn-ut (il significato di burn out - essere bruciati - è la frustrazione che si ha nel vedere frustrato in modo sistematico l'impegno, la motivazione, l'aspetto più delicato e "non pagabile" del proprio lavoro dalle organizzazioni in cui si lavora. Il rischio di burn-out è particolarmente elevato proprio in quei lavori che richiedono una componente "volontaria" di dono impagabile, come l'insegnamento, il lavoro infermieristico e di assistenza, ecc. Ecco, c'è da domandarci perché la nostra società non è abbastanza capace di riconoscere (cioè di valorizzare) il valore del contributo delle persone, ciò che di buono e positivo le persone mettono in moto.  Per quale motivo è così difficile un approccio "appreciative" alle relazioni reciproche? Viviamo in un contesto sociale, lavorativo  e istituzionale che mortifica l'apprezzatività (e quindi non riconosce i contributi degli altri, i loro talenti, i loro gift). Noi spesso non sappiamo ricevere, siamo gelosi dei contributi degli altri, frustriamo il percorso della riconoscenza, o siamo disattenti rispetto a ciò che riceviamo gratuitamente. Riconoscimento del valore delle persone significa essere loro riconoscenti. E quindi anche sentirci in debito nel circuito del dono. Ma abbiamo paura di questo sentirci in debito, abbiamo paura di essere riconoscenti. In questo modo soffochiamo tutti quei germogli di dono e di valorizzazione che spuntano davanti ai nostri piedi ogni momento e finiamo per credere che  essi non ci siano, mentre siamo noi i primi a calpestarli (ma per fortuna spesso sono resistenti come l'erba, non muore se la calpesti, al massimo si piega) o per ucciderli non vedendoli. Imparare a vedere i meriti di ognuno, cioè il valore di ciascuno: è un modo non solo di vedere gli altri ma di valorizzare il circuito complessivo di valorizzazione dei meriti. 
Tutto ciò ha una importante valenza istituzionale, non solo morale e psicologica, anche se questo tema  è oggetto di quella nuova corrente della psicologia che si chiama psicologia positiva, o psicologia del benessere.Tutto ciò infatti ha a che fare con il benessere delle comunità, delle popolazioni, non solo delle relazioni inter individuali o dei singoli individui. 
Segnalo a questo proposito il recente libro di Martin Seligman, Flourish, Free Press, 2012, uno dei principali esponenti americani di questo filone, oltre al contributo, in Europa, della Associazione Reflective Learning International www.rl-international.com e del suo direttore Tony Ghaye. 


giovedì 14 giugno 2012

Il dono

Ho visto questo libro, The Gift, di Lewis Hyde, in una libreria esoterica di Massachusset Ave. (Cambridge) e ho segnato il riferimento sul mio taccuino: mi sembrava interessante, anche se non recente, ma che importa la data in cui si scopre una cosa? Lo ho poi ordinato tra gli usati di Amazon: mi sembrava congruente con il tema del libro riceverlo non dal magazzino di Conongate ma da qualcun altro che lo aveva letto. In tre giorni lo ho ricevuto qui a Roma e scopro che quel quel "qualcun altro" a sua volta lo aveva ricevuto come dono da qualcun altro che lo aveva ricevuto come dono. Il dono è fatto per circolare o per tornare, non per finire appropriato. Il dono non è un oggetto ma una corrente, un flusso. Questa proprietà lo rende simile al capitale, che si muove anch'esso continuamente, ma mentre il capitale è il punto di partenza e il punto di arrivo e macina tutto nella sua strada, il punto di partenza e il punto di arrivo del dono sono i rapporti che danno senso. Il dono è un segno come il capitale, come il denaro, ma non schiaccia le differenze, è sempre sospeso sul filo sottile della alterità e del suo mistero.  Hyde in questo e in altri libri precedenti lega strettamente l'idea del dono a quella della creatività artistica, spiega la creatività artistica in termini di dono. Sul dono naturalmente è stato scritto tanto dai classici della sociologia, ma qui rifletto su quanto, pur vivendo in una "società di mercato" siamo immersi continuamente in uno scambio di doni, non solo quelli  della festa della mamma o dei compleanni: doni che ci scambiamo senza pensarci, perché il dono è la nostra stessa vita e la nostra stessa vita è dono. Una vita senza doni avvizzisce come una pianta senza acqua. Forse dovremmo, come esercizio, ogni giorno, tenere una contabilità dei doni che riceviamo, delle persone che ce li danno (conoscenti e sconosciuti) e domandarci come tenere in circolo il flusso del dono. Ogni giorno. E' un esercizio che rafforza una competenza trasversale fondamentale che non compare nei "bilanci delle competenze" fatte per il mercato del lavoro: la competenza "gratitudine", che giustamente, a mio avviso, Seligman propone all'inizio del suo libro Flourish (Free Press, 2012) dedicato alla psicologia del ben-essere. E' la competenza di saper dire :"grazie" e di saper essere conseguenti con questo "grazie". Come tutte le competenze anche quella della gratitudine bisogna rafforzarla, perfezionarla, svilupparla. Penso a un curriculum vitae dove alla voce competenze qualcuno abbia il coraggio di mettere: so dire "grazie". Accorgersi dei doni che riceviamo e di quelli che noi stessi diamo senza pensarci ci aiuta a sviluppare la competenza gratitudine, pietra angolare del benessere e a sviluppare la percezione della onnilateralità della gratuità in un mondo che si sembra pieno di calcoli, di appropriazioni e di interessi che privano (interessi privati). Grazie a Hyde, grazie anche a Seligman. Anche con questo Post tengo questi doni in movimento per arricchire questo particolare indispensabile capitale sociale.  

venerdì 8 giugno 2012

Ricordi d'infanzia



Tra i ricordi più vivi della mia scuola elementare vi è quello di una gara di disegno, nell’anno 1949. La scuola esiste ancora, è la Fratelli Bandiera, nei pressi di Piazza Bologna.  Si accede all’ampio cancello di entrata dopo aver salito almeno venti scalini. A questa gara parteciparono tutte le quinte (quindi non io, che frequentavo la quarta, ma d'altronde non avrei avuto la minima possibilità, dato che tutti mi dicevano che disegnavo male, e i miei disegni erano oggetto di battute denigratorie delle maestre che ancora ricordo). Mi ricordo però  di questa gara cui neppure ho partecipato perché rivedo ancora l’immagine del vincitore. La memoria forse inganna, ricostruisce, modifica ma lo ricordo ancora questo mio compagno in cima alla scalinata, appoggiato alla porta, il giorno dopo aver ricevuto il premio, che ci guardava entrare. Sono sicuro, indossava quello che a me sembrò un berretto da pittore, cioè un cappello sulle ventitre in testa a un bambino di 8 anni! Aveva lo sguardo fiero e un po’ sdegnoso: stava lì ostentando la sua vittoria, squadrando gli altri dall’alto in basso.  Lo guardavamo tutti con ammirazione, salendo le scale e sfilandogli davanti incrociando il suo sguardo indifferente. “Ha studiato per tre giorni e tre notti per prepararsi alla prova, senza dormire -  girava la voce - Per questo ha vinto!”. 

Allora, era il 1949, si pensava che l’eccellenza fosse prodotta dall’impegno e dalla disciplina, e che fosse giusto così. Io ero tagliato fuori in ogni caso, malgrado l’impegno. Ma non mi sarei mai messo a studiare tre giorni e tre notti di seguito per vincere una gara di disegno. O una gara qualsiasi, se è per questo. 

domenica 3 giugno 2012

Il migliore della scuola

Un mio amico ha inviato su facebook questa segnalazione dell'intervento di Sir. Ken Robinson sulla necessità di farla finita con le riforme dell'istruzione per intraprendere la strada delle rivoluzioni dell'educazione. Mi sembra che senza questo passaggio le riforme aggiungono il danno alla beffa. Mi sembra un ottimo commento agli affanni dei nostri governanti (non solo in Italia, ahimè, ma in Italia la componente umoristica è un po' superiore, forse perché l'imperativo "a costo zero" si confonde con un "tasso zero" di capacità di innovazione). Il messaggio di Ken Robinson (coerente con quello di tanti degli oratori di TED) non è certo nuovo, ma ora è sempre più colpevole ignorarlo, perché il vecchio ordine è impossibile da mantenere ed è evidentemente in crisi. Quindi bisognerebbe evitare le medicine sbagliate. Solo un commento: con lo specchietto per allodole del "merito" si pensa di aprire la cassaforte dell'opinione pubblica. Ma ve lo immaginate quel povero studente "più bravo" di un istituto. Due obiezioni: la decisione presa per volontà governativa (invece che provenire dal basso) e il criterio totalizzante (e quindi tipicamente "scolastica") del merito. Le università e le scuole nordamericane, che di competitività ne sanno qualche cosa, hanno diversi "meriti" su cui gli studenti possono cimentarsi, compresa la capacità di leadership e quella di lavorare insieme agli altri, e poi rispetto alle singole discipline, alla creatività, all'eccellenza sportiva, ecc. Almeno si riconosce la molteplicità dei piani su cui gli studenti possono sviluppare i loro talenti. 
E poi vi è una grande discussione sul rapporto tra l'emergenza dei "migliori" e il "miglioramento" della qualità globale della didattica. 

Ci sono storie che non vogliono essere narrate



Una poesia di Ingrid DeKok, poetessa sudafricana.


Ci sono storie che non vogliono essere narrate.
Se ne vanno, portandosi valige
tenute insieme da uno spago grigio.
Guarda le loro schiene ricurve che scompaiono.
Gobbe. Rovinate. Sacche da viaggio.

Ci sono storie che rifiutano di essere danzate o mimate.
Gettano via i bastoni consumati
e le rumorose scarpe da tip tap,
cancellano le tracce in crudeli filastrocche
o vecchi giochi come mosca cieca.

E in questo posto macchiato le parole
vengono raschiate via da lingue resinose,
strizzate come bucato appeso ai fili
della corte e del confessionale,
tradotte nel dialetto della registrazione.

Perché ancora credere che le storie possano levarsi
in volo, su correnti, come argentei segnali luminosi
levitare, alleggerite delle pietre,
cominciare nel dolore e tendere alla grazia,
ossigenando la storia col fiato ritrovato?
Perché ancora immaginare parole intere, mondi interi:
lo scoppiettio delle consonanti,
vocali come anemoni marini,
sintassi di cordone ombelicale, versi che cominciano nel cuore,
e verbi, verbi che muovono montagne?


La poesia si riferisce ai lavori della Commissione per la verità e la riconciliazione (1995-98), voluta da Nelson Mandela e Desmond Tutu, organismo di mediazione politica. La commissione aveva il compito di accertare e rendere pubbliche le gravi violazioni dei diritti umani emerse dai racconti delle vittime dell’apartheid, garantendo l’amnistia a chi avesse reso piena confessione degli abusi compiuti. Questo evento è stato un momento essenziale nella nascita del nuovo Sud Africa ed uno degli episodi più dolorosamente luminosi di assunzione di responsabilità, perdono, riconciliazione, condivisione del dolore, degli ultimi tempi. Tutto l'episodio è stato un rito di passaggio che ci fa riflettere sul rapporto tra responsabilità e perdono. 


Questa ed altre poesie sono tratte da:


In questa pagina sono altre poesie che aiutano a comprendere meglio il contesto di questa poesia.

Questa poesia mi sembra anche un passaggio indispensabile per tutti noi che lavoriamo o abbiamo lavorato sollecitando  storie e  narrazioni nella facilitazione, nella mediazione, nell'apprendimento riflessivo.


Su questa poetessa vedi anche, tra l'altro:


http://www.ingriddekok.co.za/




Sul lavoro della commissione vedi il film diretto da John Boorman, In My Country (Solo dal perdono nasce l'amore), (con Samuel Kackson e J. Binoche) vincitore del Diamond Award for Peace al festival di Berlino del 2004