venerdì 30 novembre 2012

Uno degli obblighi etici più stimolanti




Nel giorno del riconoscimento dello Stato Palestinese come osservatore alle Nazioni Unite mi piace ricordare il concerto che Daniel Barenboim tenne a Gaza il 3 maggio 2011. Daniel Borenboim  è da anni impegnato in una missione di pace mediante la musica e la sua orchestra composta di elementi di molti paesi diversi, tra cui israeliani e palestinesi. 

Recentemente è stato pubblicato in Italia una raccolta di suoi interventi da cui riporto la seguente citazione, utile nella ricerca tra etica ed estetica, un tema su cui sto girando intorno nella mia riflessione.  

"Uno degli obblighi etici più stimolanti per un interprete è quello di trovare il giusto equilibrio tra intelletto ed emozione: L'intelletto non è una dote umana inferiore all'emozione, ma, nella musica, se prende il sopravvento può andare a detrimento della compiutezza di un'esecuzione. All'estremo opposto, è altrettanto dannoso quando l'emozione procede a briglia sciolta, senza la mano ferma del pensiero razionale. Se ne hanno l'opportunità intelletto ed emozione si potenziano e si completano a vicenda, sia nell'esecuzione sia nella composizione. Di fasto, diventano indivisibili. La grande musica npn è né puramente intellettuale, né puramente emotiva: è contraddistinta dall'equilibrio dei due aspetti, com'è nella natura umana" D. Barenboim, La musica è un tutto. Etica ed estetica, Feltrinelli, Milano 2012, p. 17.




giovedì 22 novembre 2012

Documenti privati, pubbliche memorie




Ricordo d’infanzia. Nella Roma ancora ancora disseminata dalle macerie ma già meta delle prime ondate di immigrazione (nazionale, naturalmente) e dove il fronte del cemento armato cominciava con ritmo sostenuto ad espandersi nelle campagne, confinando bruscamente con borghetti e baracche, una volta l’anno o magari in occasione di un compleanno, o a Natale, i miei genitori facevano venire in casa un fotografo. Ricordo dove abitava, in un borghetto di case basse e strade sterrate, perché una volta andammo fino a casa sua per ritirare le foto. Sono buone pose di maniera, mia sorella di un anno, mio fratello di cinque, io di nove, i vestiti buoni per l’occasione, gli occhi preoccupati  fissi sull’obbiettivo della macchina fotografica (anzi sull’”uccellino”, un po’ sopra la spalla del fotografo, come egli diceva muovendo la mano sinistra là dove l’uccellino presumibilmente stava spiccando il volo, allora non si usava invitare a dire ciiis). Le guardo ora, sessant’anni dopo, vedo i nostri volti, gli abiti, ricostruisco con il senno di poi i nostri caratteri dalle espressioni e dalla posizione dei nostri corpi. Penso il miracolo di queste foto ricordo, diventate documenti anche per noi che vi siamo ritratti, come le foto di classe, scattate ogni anno nel cortile della Scuola,  con la maestra o il maestro, al centro o all’estremità di una delle fila, in cui il destino di ognuno ci sembra già scritto nel modo in cui i fiocchi dei grembiuli erano stretti, o inamidati o flosci, o dritti o sghembi. E successivamente nelle medie, con i professori più seri, l’energia e il carattere di ciascuno  a stento congelati nella posa dettata dalla regia del fotografo, con dietro le firme, documento nel documento, che ti fanno ricordare i nomi - Ma dove sei tu? Cercami, guarda se mi riconosci! - 
Penso a certe foto di cresime e comunioni dove ritrovo volti di genitori, zii, cugine, o di matrimoni: questa qui chi era? Non mi ricordo, forse un’amica di mia madre. Di quante persone ho perso la memoria, se pure ne ho mai avuta, perché da piccoli non si conosce tutti, anche nella stretta cerchia familiare, e non a tutti si presta la stessa attenzione. 
Il ricordo divaga: ricordo certe povere foto scattate da un fotografo che certamente avrà scarpinato con la sua macchina a soffietto e treppiede, chiamato per celebrare una morte, in cui è ritratta tutta la famiglia schierata, gli sguardi compunti e tristissimi, i volti scavati dalla fame e dalle malattie endemiche, di fronte al portone di una povera casa di campagna, quasi a esibire una bara tenuta obliqua perché si possa inquadrare il cadavere di un ragazzo, sull’attenti anche lui, le mani incrociate, il mento fasciato da una benda. Oppure le pose di tutti i componenti maschili di un villaggio, scugnizzi e uomini baffuti, molti dei quali armati di schioppi spianati, con volti da piccoli adulti o da briganti, ad esibire le carcasse dei lupi e celebrare il successo della caccia contro l’eterno nemico di pecore, greggi e, naturalmente, pastori.  E le foto dei matrimoni, quelle di una volta, non da sogno romantico di un giorno su fondali storico-naturali esoticamente casarecci, ma solenni e ufficiali, in cui lo scatto è parte integrate della cerimonia. Documenti.
Per quasi cento anni la fotografia popolare è stata soprattutto documento e celebrazione, o strumento di reportage e giornalismo che cominciava a rendere il mondo più piccolo, portando nelle case le immagini di posti lontani o le testimonianze di sbigottito eroismo e di sopravvivenza, come le foto spedite alle famiglie, sfuggendo le maglie della censura, dal fango delle trincee maledette o dalle grandi rivoluzioni del ventesimo secolo (vedi per es. il blog http://fotografiaprimaguerramondiale.blogspot.it )
A tutte queste foto, poveri documenti di cerimonie private o di eventi memorabili e cerimonie esse stesse, pensavo mentre visitavo la mostra Lost & Fount allo spazio Doozo del Macro di Testaccio a Roma. Lo tzunami che nell’undici marzo 2011 aveva sconvolto la costa occidentale del Giappone aveva ridotto le strade, le abitazioni, le scuole e i supermercati ad un ammasso di rovine e poltiglia. Dopo i primi aiuti ai sopravvissuti, i volontari hanno cominciato a raccogliere i pochi oggetti che potevano essere salvati. Tra essi, con delicatezza quasi religiosa, estrassero anche le foto di famiglia e gli album, e le fecero confluire nella palestra di una scuola elementare, le hanno pulite, salvandole quanto possibile, per poterle restituire alle famiglie disperse e consegnare loro il filo spezzato della memoria. 
500 giovani ricercatori della Japan Society for Socio-Information Studies si sono fatti carico di questa pietosa incombenza pulendo, restaurando e digitalizzando tutta quella massa di documenti  In tre mesi di lavoro  il Salvage Memory Project ha restituito 7.600 album e 13.000 foto. Di esse, una parte è stata oggetto di una mostra itinerante che a Roma è stata aperta dalla Galleria Doozo, negli spazi del Macro a Testaccio. 
I documenti privati, come potevano essere le foto di me e dei miei fratelli piccoli, raccolti da mani attente e gentili sono diventati così un momento di raccoglimento e di memoria pubblica. 
La fotografia è anche questo: documento privato, reportage involontario, preziose tracce di ricordi che sopravvivono alle persone e ai stessi loro ricordi, e a quelli degli eventi, tracce di collettività, di popoli, di generazioni, di epoche, memorie. 

giovedì 15 novembre 2012

Il piacere di fotografare



Foto scattata da Donatella Marras

Anni fa, durante una escursione nel Rajastan con un mio amico, salimmo a Jailsamer, chiamata la “città d’oro” perché le case, con le loro elaborate decorazioni e la fortezza con i suoi bastioni sono costruite con la roccia dorata del deserto. Curiosando per le viuzze un pomeriggio conoscemmo un impiegato delle poste che dopo il pensionamento era venuto a vivere lì, per elezione. Dopo aver discorso piacevolmente di letteratura e di poesia nella fresca penombra dell’atrio, egli cortesemente ci invitò a visitare la sua casa e soprattutto le terrazze che davano direttamente sulle mura della città. Lo spettacolo era affascinante e sia io che il mio amico cominciammo a scattare foto. 
- Pensate di poter portare con voi tutto questo? 
Ci chiese con ironia gentile il nostro ospite. 
- No, certo, ma è per rinnovare il ricordo quando torneremo nel nostro paese.
Sorrise sornione. Dopo un po’ di tempo - e molti scatti - ci accorgemmo che il tempo era passato in fretta e che si avvicinava il tramonto. Fuori Jailsamer si erge una collina dalla quale all’ora del tramonto si può vedere la città accendersi di un rosso dorato di favoloso incanto. Per uso dei turisti hanno chiamato questo punto di osservazione “sunset point”: il luogo del tramonto. Scattare le foto dal sunset point a Jailsamer è d’obbligo come a Roma  fotografare il colosseo o a Venezia il ponte di Rialto. Non volevamo mancare il rito e quindi ci accomiatammo dal nostro ospite declinando le sue cortesi offerte di ospitalità dicendo che dovevamo arrivare al “sunset point”  in tempo. Sorrise di nuovo dondolando la testa come usano fare gli indiani e mormorò: 
Ma anche questo è un “sunset point”. Non è dovunque un sunset point?
Due lezioni di saggezza in mezz’ora avevano messo a nudo la nostra povertà mentale di turisti occidentali mascherata dall’illusione dello scatto.


Tra i milioni di foto che vengono scattate ogni giorno moltissime sono animate dall’illusoria brama di possesso, come l’ospite indiano ci aveva fatto notare. Oggi la facilità digitale di scatto e archiviazione, esasperata dalle opportunità offerte dal turismo di massa  hanno moltiplicato per milioni di volte questa illusione, frantumandola in milioni di immagini volte a congelare le esperienze vive per poterle conservare nel frizer dei nostri computer, hard disk, memorie virtuali senza tatto e odore.  Moltissime altro scatti sono animati da gioiosa ingenua vanagloria, per ostentare agli amici il proprio viaggio, ostentazione che la possibilità di condivisione istantanea con i social media può rendere compulsiva.  A San Francisco è d’obbligo farsi fotografare con lo sfondo del Golden Gate. Quest’anno era l’anniversario di 75 anni del ponte e si prevedeva un enorme afflusso di turisti ma le previsioni del tempo dicevano nebbia, e quando a San Francisco è nebbia, è nebbia forte, soprattutto sulla baia, e la frenesia fotografica di immortalarsi con lo sfondo del famoso ponte rischiava di essere frustrata per la disperazione dei tour operator. Niente paura: è stato predisposta una tecnologia per cui, mediante opportuni trucchi elettronici, anche se ci fosse stata nebbia, era possibile essere fotografati sul ponte. Anzi, visto che ci si era, si poteva essere fotografati mentre si compivano spericolate esibizioni, naturalmente virtuali. Con la modica spesa di 5 euro gli amici e i colleghi avrebbero avuto di che sbalordirsi e di che rosicare.

Oppure l’occhio fotografico può essere un diaframma, farsi meccanico, lo sguardo può acquistare la velocità  di un click che diventa leggero fino a sostituirsi allo sguardo stesso, la macchina fotografica può diventare una barrier, a risucchiarti l'occhio e la mente. Ogni click fa concorrenza alle altre centinaia di click e un reticolo di click costituisce uno scafandro che ci impedisce di nuotare nel mare dell'esperienza. La fotografia può rendere leggera la nostra espereinza rendendola meno significativa. 
Nello stesso tempo, se “sparata” sugli altri - in genere  persone di altre culture, marginali, vecchi, bambini - la fotografia può essere furto e violenza, ripetizione e amplificazione, anche se inconsapevole, di uno stigma. La macchina fotografica può essere un’arma che, cristallizzando le immagine della sofferenza, della marginalità, della sessualità o della stessa bellezza, priva le persone fotografate della loro storia, della loro umanità, della loro identità, relegandole nel loro “esotismo”  e trasformandole in freak, in “mostri”, in stereotipi. L’operazione può essere tanto più violenta quanto più subdola e mascherata dalle buone intenzioni 
Per tutte queste ragioni e sensibilità, dopo un periodo di amore per la fotografia, l’abbandonai quasi completamente. Ogni volta che prendevo in mano la macchina fotografica sentivo di togliere qualche cosa al fluire della vita, tradire il rapporto diretto con le esperienze e al rapporto con gli altri. La sentivo come un diaframma al mio sguardo e alla mia sensibilità e possibilità di comunicazione. Nel corso di quest'anno, in occasione di un viaggio a Boston e San Francisco e poi in Cornovaglia, sospinto da una nuova disponibilità d’animo verso, ho cominciato a riprendere confidenza con la macchina fotografica. E mi sono osservato, cercando di fare una fotografia consapevole. Ho così riscoperto il piacere del fotografare: in certe situazioni ogni scatto può essere un oh! e ogni oh! può diventare uno scatto. La macchina fotografica può diventare un modo di esprimere la propria meraviglia, la scheggia di sogno che c’è all’interno di ogni esperienza, particolarmente dentro esperienze eccitanti e che in qualche modo colpiscono la sensibilità, la bellezza di un istante che ci coglie di sorpresa. Possono essere anche esperienze di incubi che si decide di guardare in faccia. Mi sono accorto che in questo modo scattare significava rispettare e prendere sul serio la propria meraviglia, un modo per amplificare la propria esperienza di bambini. Rivedere le foto, poi, significava ritrovare quella meraviglia. La "bella" foto era quella che meglio esprimeva la meraviglia, che meglio trasformava la sensazione di meraviglia in immagine, ed esprimendola la amava. Direi di più, ho cominciato ad accorgermi che scattando esercitavo il mio spirito a dire oh! e l’atteggiamento di meraviglia. Questa prima fase del mio percorso, dunque, posso definirla come la fase della fotografia come esercizio di meraviglia. In questo modo ho anche rivalutato un poco la fotografia turistica che avevo tanto disprezzato. Forse che il turista scattando le foto non esprime un sentimento di meraviglia (per esempio l’emozione di vedere per la prima volta dal vivo un’icona che ha sempre visto “da lontano”, in immagine,o di cui ha sentito favoleggiare)? Certo è un po’ paradossale che questa  emozione possa essere esorcizzata,  trasformando di nuovo mediante la fotografia i luoghi e gli oggetti reali (o le persone vive) in immagini ed icone: il ciclo si chiude quasi a dimostrazione che non vi è spazio per il sogno in questa nostra società delle immagini. Ma in questo movimento vi è pur sempre qualche cosa di onirico che si muove tra l’esperienza vissuta e la sua trasformazione in riflesso immaginifico.  E’ vero, il Ponte di Rialto è stato oggetto di milioni di fotografie e questo mi predispone ad avere, quando lo guardo, un'emozione di meraviglia e di riconoscimento insieme, ma la foto che io scatto è la mia foto. Gli archetipi su cui costruiamo i nostri sogni sono in fondo poco numerosi, ma essi diventano la forza che anima i nostri privatissimi sogni che hanno significato solo per noi. 
Poi, in agosto, sono tornato in Val d’Aosta: ricordo le prime volte che salii questa valle l’entusiasmo con cui avevo scattato foto dei mondi micro e dei mondi macro, dei fiori e dei ghiacciai o dei castelli. Poi avevo abbandonato la pratica della fotografia: era finita la fase della meraviglia e mi abbandonavo al più tranquillo piacere del ritrovare. Quest’anno, avendo scongelato il rapporto con la macchina fotografica e riacquistato la mia disponibilità d’animo, ho ripreso a scattare. Mi sono accorto che questo era un modo non solo per ritrovare l’attenzione e quindi riprovare la meraviglia, ma anche per vivere con maggiore intensità i momenti presenti, prestare un’attenzione rinnovata a ciò che mi circondava, a ciò che mi era accanto. Una pratica di educazione dell’attenzione che aiuta a diradare la foschia della trascuratezza, del dare per scontato. E’ come riaprire i pori della sensibilità, rivedere di nuovo i colori, le forme, risentire le presenze e dialogare con esse. E‘ come una pratica di meditazione che coinvolge anche il respiro perché quando scatti devi sincronizzare il respiro. La tua esperienza esplode in continuo oh!, in una continua celebrazione del presente. Quando sali sullo stesso sentiero dopo tanti anni facilmente puoi non vedere più ciò che ti circonda (mettiamo dei fiori gialli spuntati nel greto bianco di un torrente in secca), puoi facilmente  sostituire lo sguardo distratto alla vista consapevole e intensa che vede ogni cosa come se fosse “la prima volta”, con la meraviglia del bambino. La macchina fotografica ti suggerisce di fermarti, di ascoltare, di guardare, di tornare indietro, di aspettare (mettendo a dura prova la pazienza di chi sta con te, se non è coinvolto nella stessa passione!). Ci metti del tuo, perché fotografi delle cose e delle presenze vive attraverso le emozioni che esse ti suscitano. Quella fonte di acqua cristallina non è più soltanto una cosa là fuori, scontata, triviale, ma diventa unica, in quel momento, con quella luce, da quella angolazione, e il tuo sguardo, quello di cui sei responsabile nei confronti di te stesso, invece di produrre noia e indifferenza, produce meraviglia e bellezza. Scattare le foto ti aiuta a rispettare il tuo sguardo, non solo l’oggetto su cui esso si è posato in quella frazione di secondo. 
Fu così che decisi di prendere di nuovo un po’ più sul serio il mio rapporto con la fotografia, rendendomi conto che dovevo imparare di più per poter migliorare il mio modo di capire e di fare fotografia. Le coincidenze sono spesso amiche: venuto a conoscenza di un corso di fotografia organizzato dalla rete shoot-for-change, orientato al reportage sociale e ispirato alla positività e alla valorizzazione delle persone, ho cominciato a frequentarlo, a prendere  contatto con la rete e con “il mondo” della fotografia e del reportage sociale, a partecipare ai laboratori. Ho iniziato una nuova bella curva di apprendimento e di scoperta di nuovi significati della fotografia. Nel prossimo post cercherò di raccontare ciò che quest’esperienza mi ha insegnato e come mi sta aiutando a modificare il mio modo di vivere la fotografia e me stesso, racconterò il viaggio che sto facendo. Naturalmente la mia esperienza è simile a quella di milioni di persone che amano la fotografia. La condivisione nulla toglie però all'unicità delle esperienze. Anzi, raccontando queste emozioni sento più prossime queste nuove vicinanze e condivido un piacere che si trasforma nella pratica e anche grazie a queste vicinanze e queste presenze, mi aiuta a cresere, ad affinare la mia sensibilità a rispondere positivamente alla mia voce interiore. Ho scoperto che alcuni ex colleghi ed amici sono fotografi da tempo e non ne sapevo nulla, ho scoperto di altri pensionati che stanno facendo questa mia stessa esperienza di disponibilità, ho scoperto tanti giovani che vogliono partecipare a questo gioco.  Quindi alimento, insieme al mio sentimento di meraviglia e di crescita nella meditazione, un vasto sentimento di gratitudine.