giovedì 31 gennaio 2013

Stewardship contro l'ignavia






Benigni legge l'Inferno III (gli ignavi)

Uno dei principali motivi che mi spinsero fuori della comunità dei credenti e poi della Chiesa e della religione fu che al momento della confessione l'autoerotismo contava di più del non aver fatto quello che era in mio potere per realizzare l'amore. Era in fondo un problema di quantificazione: Figliolo quante volte ti sei toccato? Quante bugie, quante bestemmie, quanti pettegolezzi? Va bene, era più facile trovare un equivalente in pater ave e gloria di penitenza, ma non aver fatto quello che era in mio potere per realizzare l'amore del prossimo era molto meno quantificabile, come si fa a misurarlo? Ora sono diventato più tollerante anche nei confronti dei confessori. La responsabilità nei confronti di me stesso o nei confronti degli altri può essere quantificata, purché i singoli atti siano considerati solo una proxy di un atteggiamento, che è il vero "peccato", cioè la vera responsabilità con cui dobbiamo confrontarci. Ma quali sono gli atti che indicano una mancanza di presa di responsabilità, una mancanza di scelta? 
Sappiamo che l'ignavia è un peccato capitale, ma anche Dante è consapevole del suo carattere sfuggente, tan'è vero che non considera gli ignavi buoni neppure per meritarsi l'inferno.  

« E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: "Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent'è che par nel duol sì vinta?
Ed elli a me: "Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate son a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé foro.
Caccianli i cieli per non esser men belli
Né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli".
E io "Maestro ch'è tanto greve
A lor che lamentar li fa sì forte?"
Rispuose: "Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogni altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa,
misericordia e giustizia li sdegna;
non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
(Dante Alighieri, Inferno III, 31-51)

La pena degli ignavi è quella di dover girare in eterno dietro a un'insegna, una bandiera in perpetuo  veloce movimento, che non riusciranno a raggiungere mai, tormentati continuamente da tafani e api che li pungoleranno in eterno, visto che in vita loro non avevano trovato la forza di pungolarsi da soli. E' questo un peccato che si punisce da sé tant'è vero che non meritano neppure il Giudizio finale (non hanno speranza di morte)? E' un "peccato-condizione" ed è questo che li rende invidiosi di ogni altra sorte? 
Ecco, la stewardship la vedo un po' come una serie di procedure per rendere visibile (a noi stessi innanzi tutto) le responsabilità nascoste anche quantificando con indicatori adeguati un atteggiamento, una cultura, una responsabilità. Qualche volta questi indicatori sono fastidiosi come i tafani e le api che tormentano gli ignavi, ma possiamo usarli come una informazione preziosa per comprendere la nostra responsabilità uscendo fuori della recriminazione autoreferenziale. 

Sono utili anche gli esempi, bisogna essere umili: gli ignavi sono tanti, ma più di quanto sospettiamo sono coloro che scelgono, che si assumono responsabilità, che si impegnano. Il male che fa la TV è di concentrare l'attenzione su una ventina di personaggi e proporci sempre quelli, incartati nella gabbia dei due o tre temi su cui strutturano la loro opposizione dialettica, oscurando le decine di migliaia che lavorano ogni giorno assumendosi responsabilità anche per noi (è la vera delega!).  I mass media producono un'immagine della politica e poi questa immagine viene demonizzata, in una spirale che alimenta se stessa. Dobbiamo spegnere la TV e scoprire gli steward intorno a noi, e imparare da loro, farci aiutare da loro aiutandoli, per uscire dal numero di coloro che solo "per sé foro", e soprattutto, avere passione, scegliere, perché si commette il male anche quando non si sceglie con la scusa (alibi) di non volersi sporcare le mani. Creiamo piuttosto strumenti di riconoscimento e valorizzazione e premio della responsabilità, guardiamo al nostro vicino,  alla nostra parrocchia, al nostro comprensorio, alle numerose associazioni  di volontariato e cerchiamo di imparare da loro. Non vorrei essere retorico, ma poiché ho cominciato con una reminiscenza religiosa, direi che sono loro i nostri angeli civili di cui dovremmo seguire l'indicazione. Naturalmente anche loro sono pieni di difetti ma sono.... soltanto angeli.





mercoledì 30 gennaio 2013

Società civile, politica e bisogno di stewardship.






Il post del 2 gennaio "Stewardship del territorio" è balzato ai primi posti nelle visite di questo blog e continua a riceverne di ora in ora, superando le 170 in trenta giorni. Un record, tenuto conto del volume complessivo del blog (che peraltro si avvia alle 1000 visite nel corso dell'ultimo mese, forse perché questa impennata ha prodotto un effetto di trascinamento anche su altri post). I casi sono due: o sono tante le persone che amano Rieti e i suoi segreti sotterranei, e il Velino, oppure il tema della stewardship del territorio, o della stewardship in generale suscita un po' di interesse.  O forse entrambe le cose....

Riprendo il tema della stewardship: ci sto lavorando da tempo, ho partecipato alla nascita di una associazione che ad essa e alla sua diffusione si richiama (www.stewardship.it) e, in questi tempi in cui si allarga la consapevolezza che stiamo dando fondo a tutte le riserve fisiche, ambientali, culturali, che avevamo a disposizione, senza saperci arrestare, e di crisi della politica, è un  tema di urgente interesse. Il termine è di uso normale nei paesi anglosassoni ma in Italia suona un po' esotico. Stewardship significa prendersi cura, nel senso non solo della protezione e conservazione ma soprattutto della valorizzazione e parte dal presupposto che questo prendersi cura significa assunzione di responsabilità verso qualcuno. Significa, in poche parole, assumersi la responsabilità degli interessi di qualcuno, in uno spirito di servizio anziché di perseguimento dell'interesse personale e privato: choosing service over self-interest, è il sottotitolo del libro di Peter Block "Stewardship". La società di mercato si alimenta dell'illusione (che a sua volta contribuisce ad alimentare) che se gli individui sono lasciati liberi di perseguire  i loro interessi privati e pongono questi al vertice delle loro emozioni e dei loro calcoli, finisce che si affermerà il benessere di tutti (o della maggioranza possibile). In questa visione c'è poco spazio per la stewardship, così come per il bene comune o lo spirito di servizio. Ma anche l'attribuire allo Stato (e quindi al Governo, ai vertici politici politici e amministrativi) il potere di decidere quale sia il benessere di una società e la direzione dello sviluppo si è rivelato nel corso del novecento causa di rovine e costi umani immani, magari in nome di un'etica superiore che avrebbe dovuto giustificare i sacrifici degli individui: anche qui non c'è spazio alla stewardship. L'attualità della stewardship nasce proprio dal doppio fallimento di queste ideologie e dei sistemi di regolazione e di governo che si basano su di esse.

Non mi piace l'affermazione che il modo per far uscire la politica dal pantano in cui si è immersa bisogna ricorrere alla società civile. La società civile (si intendono chi? i professionisti, gli imprenditori, i professori, i commercianti - si è rinunciato ad intendere agli operai, i lavoratori dipendenti, i contadini - meglio parlare direttamente di "società borghese, no?) non sa di politica e neppure di leggi, perché è di un'altra pasta, perché, svuotate le riserve di quelle ideologie che bene o male nutrivano anche gli ideali, la società civile è diventata solo il fondamentale brodo di coltura degli interessi particolati e delle culture (non ideologie!) che li legittimano. Quelli che scendono o salgono in politica sono o diventano subito maschere di quella mentalità e di quella cultura: egoismo (self interest), riservatezza e (privacy), al massimo, deontologia professionale, che non è la stessa cosa di morale pubblica. L'esplosione della corruzione nella politica è l'effetto dell'entrata della società civile nella politica senza mediazioni e trasformazioni.

Credo nella divisione del lavoro e nella divisione dei poteri, anche perché credo nell'importanza delle competenze, delle esperienze e dei saperi, credo quindi che saper fare politica richieda altrettanta competenza che saper fare l'avvocato, il dottore o il manager ma sia una cosa diversa (vuol dire conoscere la complessità delle istituzioni, gli effetti delle leggi, saper interpretare e mediare gli interessi e tradurli in una visione di cambiamento) ma credo nell'importanza di distinguere tra politica e società civile anche per un'altra ragione, perché mi piacerebbe che la rappresentanza degli interessi non consistesse nel portare le lobbies, cioè la società civile con la sua ideologie e la sua morale, al potere. Mi piacerebbe che, diventato inadeguato un certo modo di selezionare i politici e gli uomini di governo e i dirigenti pubblici e privati, quello dei partiti di massa, per intenderci, con dietro dei grandi movimenti sociali organizzati, si riuscisse di trovare un modo nuovo di fare politica e di formare e selezionare i politici. E' illusorio e pericoloso pensare a scorciatoie, tanto più se queste sono il suffragio universale. Questa è una porta spalancata alla degenerazione  populistica e demagogica della politica. O davvero pensiamo ancora che uno perché si è fatto ricco è candidato ad essere il governante migliore, come molti, troppi , ingenuamente credono?

Una riflessione: si parla del nepotismo e del baronato che inquinerebbe l'Università? Perché non si dice anche che le facoltà più inquinate dal nepotismo e dal baronato sono quelle in cui più pesano gli interessi professionali, cioè medicina e legge? L'etica della società civile non è migliore dell'etica accademica, anzi....

La politica ha bisogno di una rivoluzione nella società civile, di una riscoperta dell'importanza dell'etica nella società civile: nelle professioni, negli affari, nella finanza, nei rapporti di lavoro, nel giornalismo, nelle aule dei tribunali e nell'amministrazione. Non parlo della deontologia, e neppure della legalità: questi sono il minimo, anche se spesso sono violati. Parlo della capacità individuale, delle comunità di pratiche, dei gruppi professionali, di sistema, di compiere scelte e adottare comportamenti basati sui principi di base della stewardship: rispetto degli interessi che si servono, riflessività, apprendimento continuo, trasparenza. valorizzazione,  partnership.

La stewardship è l'etica della società civica, non della cosiddetta società civile.

In una intervista, Falcone rispose al giornalista che gli domandava chi glielo faceva fare: "Soltanto lo spirito di servizio". Dovremmo ancorare il nostro comportamento quotidiano a questo principio e in questo modo trasformare il nostro modo di essere società civile in società civica. Ma non saremmo ancora pronti per "salire in politica", perché quello è un mestiere ancora più difficile.






domenica 20 gennaio 2013

Something there is that doesn't love a wall




Diversi economisti hanno dimostrato che il grado di fiducia esistente all'interno di un sistema sociale è un bene economico da diversi punti di vista: innanzi tutto riduce drasticamente i costi legati alle transazioni economiche (quelli che sono stati chiamati da tutta una scuola di ricerca "costi di transazione"). Poi, incentiva l'impegno nelle imprese che richiedono la cooperazione e quindi aumenta l'intelligenza sociale, riduce la paura per il rischio, agevola il credito, aumenta la cultura della partnership e quindi accresce la capacità della società e degli individui di fare investimenti per il futuro condividendo e facendo fruttare le risorse gli uni degli altri perché aumenta la fiducia nel futuro.
Peccato: aumentare la fiducia all'interno di una società non è facile e sembra che il Globale stia erodendo velocemente anche i serbatoi di fiducia che le società erano riuscite a difendere. Perché poi, cosa è il mondo globale se non un mondo in cui tutti ci comportiamo come stranieri, cioè un mondo in cui, onestamente, non possiamo aspettarci e dare fiducia? Di chi possiamo fidarci? Quali basi razionali e di esperienza ha la fiducia reciproca? E quindi innalziamo muri, anche se si tratta di una attività senza fine e sempre più costosa. 

Fiducia è una parola grossa, che pronunciamo ormai timidamente. Forse potremmo accontentarci della capacità di essere "buoni vicini"? Un proverbio ben noto dice "buon steccato fa buon vicinato", un proverbio della società contadina che il postindustriale sembra condividere, alla faccia della fluidità. Ma è proprio vero? E' sulla  proprietà privata e sui muri che ci dividono che si può fondare la fiducia e sul diritto, che pretende di difenderci dalla sfiducia perché innalza gli steccati, prevede frodi e prevaricazioni, appende le noste sorti all'avventura del processo invece che alla scommessa non necessariamente più rischiosa della cooperazione, alle affollate aule dei tribunali con i loro rituali di rancore invece che alla fatica del capirsi fidandoci della buona fede? Ricordo la bellissima e famosissima poesia di Robert Frost "Mending Wall", Riparando un muro.  Il senso di certe perdite le può esprimere solo la poesia. Ricorro alla traduzione di Emma Pretti, pubblicata sul suo blog: www.emmapretti.wordpress.com  (agosto, 15, 2011) :

Riparando un muro

C'è qualcosa che odia i muri,
fa gonfiare il terreno gelato sotto di loro,
rovescia il masso portante sotto il sole;
rende perfino affannoso il respiro
se due passano fianco a fianco.
I cacciatori fan la loro parte passando
non avevano lasciato pietra su pietra
per stanare il coniglio dalla tana
e accontentare i loro cani uggiolosi.
Parlo piuttosto di respiri che nessuno
ha mai visto né sentito,
ma quando arriva il momento di costruire
noi li troviamo là.
Lascio che il mio vicino oltre la collina
se ne accorga, così noi due c'incontriamo
camminando lungo il confine
e lo rimettiamo in piedi di nuovo
e teniamo quel muro tra noi due
quando ce ne andiamo.
A ognuno i propri massi caduti prima.
Alcuni come pagnotte altri quasi palloni
c'inventiamo una magia per tenerli insieme:
State lì finché non ci voltiamo!"
Usiamo le nostre dita rozze per sistemarli.
Oh! una vera partita all'aria aperta.
Uno per lato. Si gareggia per poco:
Dove ci troviamo non c'è bisogno di un muro:
lui è tutta una distesa di pini e io
un frutteto con alberi di mele.
I miei alberi non attraverseranno mai
per mangiare le sue pigne, gli dico.
Ma risponde "Un buon steccato fa buon vicinato"
Un salto sarebbe mio danno, e mi chiedo
sew posso convincerlo: "perché fa buon vicinato?
Non serve forse per le mucche? Ma qui non ce ne sono.
Prima di costruire il muro avrei voluto sapere cosa
chiudevo dentro o lasciavo fuori,
e a chi recavo offesa.
Qualcosa odia il muro, lo vuole abbattere".
Potrei dirgli "Elfi", ma non precisamente elfi,
e preferirei fosse una sua idea.
Lo vedo mentre stringe una pietra in ogni mano
ansimando, come un guerriero primitivo.
Si muove nell'ombra del bosco e degli alberi, e non solo.
Non ce la farà a superare l'adagio di suo padre,
e ama così tanto quel detto che di nuovo ripete:
"Buon steccato fa buon vicinato".

In controtendenza il reporter Paul Salopek ha iniziato un lungo viaggio a piedi che in sette anni dovrebbe portarlo dall'Etiopia alla Terra del Fuoco, seguendo le orme della popolazione del Pianeta e l'idea che il tempo della assimilazione dell'informazione è di ... circa 5 chilometri l'ora. E' possibile seguire il suo percorso iscrivendosi al sito www.outofedenwalk.com




sabato 12 gennaio 2013

Noi gente per formare un'unione migliore




Gli Stati Uniti d'America sono forse il paese in cui il rapporto tra motivazioni etiche e costruzione della cittadinanza, l'intreccio tra i dilemmi etici e le sfide della politica, vengono espressi in modo tanto convincente sia dai politici che dalla produzione culturale.  Difficile sottrarsi al fascino di quei sermoni e di quelle argomentazioni, di quei discorsi, di quei film e di quei romanzi, dove i più profondi nodi etici diventano storie e le storie sono un insegnamento da trasformare in politica. E' facile trovare (anche su Internet) tantissimi di questi esempi ma credo che gran parte dell'egemonia culturale statunitense sia spiegabile oltre che per cause economiche e "coloniali", anche per questo nesso, così come credo che questa sia la ragione anche per cui in tanta parte del mondo essa possa suonare blasfema. Anche il rapporto con la religione è notoriamente sempre presente. Propongo in questo post il discorso che Obama tenne il 18 marzo del 2008, in piena corsa elettorale, a Filadelfia, conosciuto come "Discorso sulla razza" ma il cui titolo ufficiale era "Noi gente per formare un'unione migliore" (We people in order to form a more perfect union). Sentendolo recentemente ho riflettuto molto sui problemi che abbiamo di fronte oggi, e su cui sto riflettendo, del rapporto tra etica e politica. Lo condivido con piacere nel mio blog, dove condivido le cose di valore,  con la traduzione in italiano di Giorgia Ferro e Sonia Ter Hovanessian pubblicata da www.fermento-democratico.ilcanocchiale.it.
La registrazione di you tube (della Fox) non è completa, quella completa può essere scaricata in 5 files sul canale BarakObama.com. La traduzione in italiano è quasi completa.



"Duecentoventuno anni fa, in una sala che esiste tutt’ora, dall’altra parte della strada, un gruppo di uomini si riunì e, con queste semplici parole, lanciò l’improbabile esperimento democratico in America. Contadini e studiosi; uomini di stato e patrioti che avevano attraversato l’oceano per sfuggire la tirannia e la persecuzione, fecero finalmente la loro dichiarazione d’indipendenza ad un convegno a Philadelphia, che durò tutta la primavera del 1787.

Il documento prodotto fu alla fine firmato ma nella sostanza rimase incompiuto. Era macchiato dal peccato originale di questa nazione, cioè dalla schiavitù, una questione che divise le colonie e portò il convegno ad un punto morto, finché i fondatori non scelsero di permettere la continuazione del mercato degli schiavi per almeno altri vent’anni, e di lasciare una eventuale risoluzione alle generazioni successive.

Chiaramente, la risposta alla questione della schiavitù era già stata inclusa nella nostra Costituzione – una Costituzione basata sull’ideale della pari cittadinanza sotto la legge; una Costituzione che prometteva al suo popolo la libertà, la giustizia ed un’unione che poteva e doveva essere perfezionata nel tempo.

Eppure parole scritte su una pergamena non sarebbero state sufficienti per liberare gli schiavi dalle loro catene, o per garantire ad ogni uomo e donna di qualunque colore e credo pieni diritti e doveri come cittadini degli Stati Uniti. Quello che fu necessario furono gli americani delle generazioni successive, pronti a fare la loro parte – grazie a lotte e proteste, nelle strade e nei tribunali, con una guerra civile e la disobbedienza, sempre a costo di grandi rischi – per colmare la distanza tra la promessa dei nostri ideali e la realtà del loro tempo.

Questo è stato uno degli obiettivi che ci siamo posti all’inizio di questa campagna – di proseguire la lunga marcia di chi è venuto prima di noi, una marcia per un’America più giusta, più uguale, più libera, più altruista e più ricca. Ho scelto di presentarmi alla candidatura presidenziale in questo momento della storia perché credo fortemente che le sfide dei nostri tempi si possono risolvere solo se le risolviamo insieme – solo se perfezioniamo la nostra unione capendo che possiamo avere storie diverse, ma abbiamo speranze in comune; che possiamo sembrare diversi e provenire da posti diversi, ma vogliamo tutti muovere nella stessa direzione – verso un futuro migliore per i nostri figli e nipoti.

Questa convinzione nasce dalla mia piena fiducia nella dignità e generosità del popolo americano, ma anche dalla mia esperienza di americano.

Sono figlio di un uomo nero del Kenya ed una donna bianca del Kansas. Sono cresciuto grazie all’aiuto di un nonno bianco che superò la ‘Depressione’ combattendo nell’esercito di Patton durante la Seconda Guerra Mondiale, e grazie ad una nonna bianca che lavorò in una fabbrica di bombe a Fort Leavenworthe mentre suo marito era oltreoceano. Ho frequentato alcune delle migliori scuole negli USA e, paradossalmente, sono vissuto anche in uno degli stati più poveri. Sono sposato con una nera Americana che porta in sé il sangue di generazioni di schiavi e il sangue dei loro padroni – un’eredità che tramandiamo alle nostre preziose figlie. Ho dei fratelli e sorelle, nipoti, zii e cugini di tutte le razze e classi sociali, sparsi in tre continenti e finchè vivrò, non mi stancherò mai di ribadire che in nessun’altra nazione al mondo la mia storia sarebbe stata possibile.

Questa mia storia non mi ha reso il candidato più convenzionale. Ma è una storia che ha impresso nel mio dna l’idea che questa nazione è più che una somma delle sue parti; presi tutti insieme, siamo un’entità unica.

Abbiamo sentito le parole del mio ex-pastore, il Reverendo Jeremiah Wright, che usa un linguaggio provocatorio per esprimere idee che potrebbero non solo aumentare la divisione razziale, ma anche denigrare tanto la grandezza quanto la bontà della nostra nazione; offendendo bianchi e neri in egual modo.

Ho già condannato, in termini inequivocabili, le affermazioni del Reverendo Wright, causa di tanta controversia. Per alcuni rimangono delle questioni sospese. Sapevo che il reverendo era un critico feroce della politica estera ed interna americana? Certamente. Ho mai sentito delle affermazioni considerate controverse mentre stavo seduto in Chiesa? Si. Ero fortemente in disaccordo con molte sue idee politiche? Assolutamente – proprio come sono sicuro che molti di voi avete ascoltato i discorsi dei vostri pastori, preti o rabbini trovandovi profondamente in disaccordo.

Ma i commenti che hanno causato la recente pioggia di fuoco non erano solo causa di polemiche. Non erano nemmeno dettati dalla volontà di una figura religiosa ad esprimere un’opinione contro l’ingiustizia. Anzi, esprimono una visione estremamente distorta di questa Nazione – una visione che definisce il razzismo bianco come endemico, elevando il peggio dell’America sopra a tutto ciò che sappiamo giusto in America; una visione secondo la quale il conflitto in Medio Oriente sarebbe radicato principalmente nelle azioni di alleati fedeli come Israele, invece che essere una opportunità di scacciare da lì le perverse ed odiose ideologie appartenenti all’Islam radicale.

In quanto tali, i commenti del Reverendo Wright erano sia errati che disgregativi, origini di divisioni in un momento in cui abbiamo bisogno di unità; carichi di razzismo quando abbiamo bisogno di metterci assieme e risolvere una serie di problemi poderosi – due guerre, la minaccia di terrorismo, un’economia in declino, la crisi cronica del sistema sanitario e un cambiamento climatico potenzialmente devastante; problemi che non sono né neri né bianchi né ispanici o asiatici, ma piuttosto problemi che riguardano tutti.

Visto il mio retroscena, le mie politiche, i miei valori ed ideali professati, senza dubbio ci sarà chi troverà insufficiente la mia presa di distanza dalle affermazioni del reverendo. Perché mai mi sono unito al Reverendo Wright, si chiederanno? Perché non frequentare un’altra Chiesa? Confesso che se io conoscessi il reverendo Wright solamente attraverso gli stralci di sermoni trasmessi a ripetizione in televisione e su You Tube, o se la Trinity United Church of Christ fosse effettivamente quella caricatura descritta dai commentatori, non vi è alcun dubbio che reagirei di conseguenza.

Ma la verità è che la mia conoscenza di quest’uomo va oltre. Il reverendo che conobbi più di vent’anni fa è l’uomo che mi ha introdotto alla mia fede cristiana, un uomo che m’insegnò il valore dell’amore e il dovere ad assistere malati e poveri.

Nel mio primo libro, Dreams from my father, ho descritto l’esperienza durante la mia prima messa al Trinity:

«Le persone si misero ad urlare, alzandosi dalle loro sedie, battendo le mani e invocando, mentre un vento forte trasportava la voce del reverendo fino alle travi…. in una sola parola – speranza! – ho percepito dell’altro; al piede di quella croce, nelle migliaia di Chiese sparse per la città, ho immaginato le storie di semplici persone di colore che si fondevano con le storie di Davide e Golia, Mosè e il Faraone, i Cristiani nella fossa dei leoni, le ossa di Ezechiele. Quelle storie – di sopravvivenza, di libertà, di speranza – diventavano la nostra storia, la mia storia; il sangue versato era il nostro, le lacrime le nostre lacrime; fino a quando, in quella splendida giornata, quella chiesa nera mi apparve piuttosto un veliero in grado di trasportare la storia di un popolo alle generazioni future e ad un mondo più ampio. Le nostre disgrazie e i nostri trionfi diventavano unici ed universali, al di là del colore della pelle; nel narrare il nostro cammino, e attraverso le storie e il canto, ci siamo riappropriati di una memoria storica senza doverci più vergognare….un passato che tutti possono studiare ed apprezzare – e col quale potremmo dar vita ad una ricostruzione».

Questa è stata la mia esperienza al Trinity. Come altre chiese nere di questa nazione, il Trinity incarna la comunità nera nella sua totalità – il dottore e la mamma a carico dello stato, lo studente modello e l’ex gangster. Le messe al Trinity, come in altre chiese nere, si distinguono per risate fragorose e umorismo. Sono piene di balli, applausi, invocazioni ed entusiasmo partecipe che può turbare un orecchio non avvezzo. La Chiesa raccoglie in sé la gentilezza e la crudeltà, l’intelligenza feroce e l’ignoranza sconcertante, le sfide ed i successi, l’amore e, sì, anche l’amarezza ed il pregiudizio che fa parte dell’esperienza neroamericana.

Tutto questo, forse, aiuta a comprendere il mio rapporto con il Reverendo Wright. Per quanto imperfetto possa apparire, egli è stato come una famiglia per me. Ha rafforzato la mia fede, ufficializzato il mio matrimonio e battezzato i miei figli.

Io credo che la razza sia una questione che questa nazione non si può permettere d’ignorare. Sarebbe come commettere lo stesso errore che il Reverendo Wright fa nei suoi sermoni offensivi sull’America – che banalizzano e stereotipano la realtà, amplificandone il lato negativo.

I commenti e le questioni venute a galla nelle ultime due settimane riflettono le complessità di questo paese legate alla razza, che non abbiamo risolto – una parte della nostra nazione che dobbiamo ancora perfezionare.

Ma la rabbia è reale; è viva; e aspettarsi che svanisca, condannarla senza comprenderne le sue radici, favorisce l’incomprensione che esiste tuttora tra le razze.

Di fatto, una rabbia simile esiste anche in segmenti della comunità bianca. La maggioranza di bianchi americani di ceto medio basso non si sente privilegiato dalla sua razza. La loro esperienza è l’esperienza dell’"immigrato" – per quanto li riguarda, nessuno ha regalato loro niente, si sono costruiti tutto da zero. Hanno lavorato sodo per tutta la vita, spesso per vedere il loro lavoro trasferito all’estero o la loro pensione annullata dopo una vita di stenti. Sono preoccupati per il loro futuro, hanno l’impressione che i loro sogni svaniscano. In un’epoca di salari fissi e competizione globale, l’opportunità viene vista come una partita a punteggio nullo, dove i propri sogni si realizzano a proprie spese. 

Così come la rabbia dei neri si è spesso mostrata controproducente, i risentimenti bianchi ci hanno distratto dalle vere cause della contrazione della classe media – discordie aziendali interne, pratiche di rendicontazione discutibili, avidità a breve termine ed una Washington dominata da lobbisti, interessi particolari e politiche economiche che favoriscono una minoranza rispetto alla maggioranza. Ma se liquidiamo il risentimento dei bianchi americani, etichettandolo come mal indirizzato o razzista senza riconoscerne le cause legittime – anche questo incrementa la divisione razziale e blocca il cammino verso la comprensione.

La situazione in cui ci troviamo adesso è questa, uno stallo della questione razziale in cui siamo bloccati da anni. Contrariamente alle constatazioni di alcuni miei critici, sia bianchi che neri, non sono mai stato così ingenuo da credere che si possano superare le divisioni razziali in una singola tornata elettorale e neanche in un solo mandato presidenziale – soprattutto in un mandato imperfetto come sarebbe il mio.

Ma ho un profondo convincimento – un convincimento radicato nella mia fede in Dio e nella fede nel popolo americano – che lavorando assieme possiamo andare oltre i vecchi rancori razziali, e che quindi non abbiamo altra scelta che continuare sul cammino per un’unione migliore.

Per la comunità afro-americana, questo cammino verso il futuro significa abbracciare il peso del nostro passato senza diventarne vittime. Significa continuare a battersi continuamente per una piena giustizia in ogni aspetto della vita americana. Ma significa anche legare le nostre rimostranze – per avere un servizio sanitario migliore, scuole migliori, lavori migliori – alle aspirazioni di tutti gli americani – la donna bianca che si sforza di rompere il tetto di vetro, l’uomo bianco licenziato, l’immigrato che prova a dare da mangiare alla propria famiglia. Questo significa assumersi le proprie responsabilità – chiedendo di più ai nostri padri e passando più tempo coi nostri figli, e leggere e insegnare loro che anche se affronteranno sfide e discriminazioni nella loro vita, non dovranno mai soccombere alla disperazione o al cinismo; essi dovranno sempre credere di essere autori del loro destino. 

Il grave errore dei sermoni del Reverendo Wright non è che egli parlò di razzismo nella nostra società. Ma piuttosto che ne parlò come se la nostra società fosse statica; come se il progresso non fosse avvenuto; come se questa nazione – una nazione che ha reso vera la possibilità che un semplice cittadino possa correre per la carica più alta del nostro paese e costruire una coalizione di bianchi e neri, ispanici ed asiatici, ricchi e poveri, giovani e vecchi – fosse ancora inevitabilmente legata ad un passato tragico. Ma quello che sappiamo – quello che abbiamo visto – è che l’America può cambiare. Questo è il vero spirito di questa nazione. Quello che abbiamo già conquistato ci dà speranza – l’audacia di sperare – per ciò che possiamo e dobbiamo realizzare domani".



giovedì 10 gennaio 2013

Attenti all'etica!




L'etica è una bella parola, ci piace, sa di buono e di giusto. La mancanza di etica ci sembra uno dei maggiori segni del degrado in cui le relazioni sociali e politiche stanno sprofondando. Tuttavia non possiamo ignorare l'ambiguità e la pericolosità di questa parola facendo finta di non sapere che molte delle azioni più terribili commesse nella storia sono state impregnate di una forte valenza etica, in nome di valori supremi. Il ventesimo secolo, in particolare, è stato pieno di queste nefandezze, quando la qualifica di etico è stato attribuito agli stati totalitari. Il nazismo, il comunismo (dei gulag e della polizia segreta, quello di Stato), Pol Pot e i Khmer Rossi, non sono forse stati animati da una furia etica che ha travolto ogni resistenza di senso comune? Perché l'etica questo può fare, in certe condizioni, abbassa le difese critiche degli individui e della società. L'idea di "Stato Etico" è un mostro dell'epoca moderna,  connubio immorale  tra etica e progresso, ovvero tra etica e storia, quella appunto lineare e presuntamente progressiva, e così tutta la sequela di figli mostruosi che ha generato. Le rovine che l'angelus novus di Khlein guarda mentre il vento impetuoso della storia lo spinge verso un futuro che non vede sono le rovine che sistemi etici hanno generato, facendo sintesi con la stupidità, le utopie, le follie del ventesimo secolo.
Ma anche l'Etica senza storia, quella delle fedi e dei principi senza tempo e senza condizioni non ha scherzato. Qui dobbiamo usare la maiuscola. Non è forse in nome di una battaglia etica che sui due fronti si scontrano i "difensori della vita" e i difensori dei diritti della persona per quanto riguarda l'interruzione volontaria della gravidanza o il diritto a una morte buona e dignitosa? E furiosi scontri etici sono quelli che spingono centinaia di giovani a suicidarsi o uccidere in nome di una guerra santa non solo perché religiosa, ma perché, così come il mostruoso rapporto tra etica e storia, anche la congiunzione tra etica e politica ha prodotto mostri, che usiamo bollare, oggi, con il nome di integralismi, per comodità, che però nascono, in un modo o nell'altro, lì. E anche la congiunzione dell'etica con la religione, con le fedi, ha prodotto mostri. Certo questa affermazione può suonare paradossale visto che moltissimi ritengono che senza religione viene meno ogni fondamento dell'amento dell'etica, ma  io preferisco pensare che, all'opposto, la religione possa esprimere un bisogno etico profondo. Se si scambiano i termini della questione si trasforma il bisogno etico in Etica.  
Come la Brown (politologa statunitense autrice di La politica fuori dalla storia, Laterza, 2010) sostiene giustamente - e, a mio avviso, molto provocatoriamente - che anche l'indignazione che anima oggi tanta "antipolitica" è frutto del collasso dell'etica nella politica, è sorellastra a suo modo degli integralismi e cugina dei totalitarismi. Certamente in molti ci sentiamo indignati,  offesi, da tanti comportamenti, e il problema morale che ci fa gridare "è ingiusto!" c'è tutto. Ma è innocuo far precipitare questa indignazione nella politica chiedendo alla politica, all'azione politica di farsi arma dell'etica?  (tra parentesi, ho visto il bel film La regola del silenzio di Robert Redford, dove si inseguono non solo persone ma valori ed etiche diverse, con i loro dilemmi, che costituiscono contemporaneamente il punto dinamico di aggancio e di divisione dei personaggi). Attenti all'Etica! mi viene da dire, come nella canzone di Brassens ripresa dal grande Fabrizio: attenti al Gorilla!
Oggi tutti sentiamo di vivere in una emergenza etica perché si sono frantumati i pilastri sui quali poggiava tutto l'edificio valoriale ed epistemologico dell'occidente, con le sue architetture, le sue cerimonie e le regole della quotidianità: orfani dell'etica guardiamo sbigottiti le rovine e non ci vogliamo credere. Forse dovremmo elaborare il lutto.
L'etica è diventata le etiche. I codici deontologici sono il tentativo di acchiappare il gorilla per la coda. Ciò che conta sono diventate le etiche che stanno dentro le regole che seguiamo per prendere le decisioni, professionali o no, i criteri che adottiamo per valutare, prognosticare, prevedere. Le etiche si sono trasformate in metodologie. Ogni disciplina, ogni professione, ogni campo di attività ha le sue etiche nascoste, incorporate nelle tecniche, nei sistemi di carriera, negli assunti epistemologici. Qualche anno fa organizzai all'Università Sapienza di Roma un seminario sui dilemmi etici nei mondi professionali, cui parteciparono un'ottantina di rappresentanti di molte associazioni professionali. Ho l'impressione che molti considerassero l'argomento provocatorio e sconveniente. Altri invece colsero appieno il senso del tema, fornendo vividi racconti dei dilemmi quotidiani. L'immagine del professionista come tecnico il cui principale merito è "sapere" fa parte ancora del mito. Guai far trasparire che in realtà ogni volta scegli un compromesso, discutibile come tutti i compromessi! Finisci per crederci che i tuoi piedi poggiano su solida roccia, a meno che non guardi da vicino come decidi  ogni giorno. Eppure è sempre più attuale il monito di Donald Schon (Il professionista riflessivo, Dedalo, 1993) che nella realtà i professionisti annaspano tutto il tempo nella palude delle decisioni imperfette, dei dilemmi  tra codici professionali diversi, delle priorità discutibili e, naturalmente, delle razionalità limitate. Attenti all'Etica, cioè a non prendere sul serio i propri e gli altrui dilemmi, a chiudere le porte alle ragioni degli altri, a ciò che per noi e per gli altri ha valore. L'attualità della questione etica significa anche partire da qui, dall'etica delle scelte dilemmatiche, dialogiche, riflessive, contestuali, senza volare via nell'incoscienza della durezza delle scelte che si compiono o che si impongono in nome dell'etica.



Questa foto come le due successive sono ispirate da un graffito disegnato su un muro di via dei Sardi a Roma per celebrare le vittime del continuo femminicidio in corso sul nostro pianeta. Ad ogni sagoma è apposto un nome, il nome di una donna assassinata, e tutte queste donne si tengono per mano in una sequela infinita davanti alla quale i passanti e il traffico urbano scorrono come ectoplasmi o ombre.




lunedì 7 gennaio 2013

Imagine

Studentessa stuprata in India: 600 chitarristi la ricordano suonando "Imagine" di John Lennon
Durante il festival di musica di Daljeeling, nell'India orientale, tre settimane dopo l'efferata aggressione alla giovane, seicento ragazzi e ragazze hanno voluto esprimere la loro vicinanza e la loro voce alla vittima di questo ennesimo stupro suonando con le loro chitarre la canzone di Jhon Lennon "Imagine" . Abbiamo scelto questa canzone perché parla di speranza, di pace e di promesse", ha spiegato Sonam Bhutia, uno degli organizzatori del festival di Darjeeling.
Studentessa stuprata in India: 600 chitarristi la ricordano suonando "Imagine" di John Lennon




Cosa sta succedendo di nuovo nel mondo, anzi d'antico? Questa, amici, è la vera notizia.
Durante il festival di musica tenuta a Darjeeling nell'India orientale, 600 giovani hanno espresso la loro voce e la loro vicinanza alla ventitreenne violentata a Nuova Dehli, ennesima vittima della violenza sessuale in India, suonando con le loro chitarre la canzone Imagine di John Lennon. "Abbiamo scelto questa canzone perché parla di speranza, di pace e di promesse", ha spiegato Sonam Bhutia, uno degli organizzatori del festival di Darjeeling (notizia da www.today.it). 




Immagina
 
Immagina non ci sia il Paradiso
prova, è facile
Nessun inferno sotto i piedi
Sopra di noi solo il Cielo
Immagina che la gente
viva al presente... 
Immagina non ci siano paesi
non è difficile
Niente per cui uccidere e morire
e nessuna religione
Immagina che tutti
vivano la loro vita in pace...
Puoi dire che sono un sognatore
ma non sono il solo
Spero che ti unirai anche tu un giorno
e che il mondo diventi uno
Immagina un mondo senza possessi
mi chiedo se ci riesci
senza necessità di avidità o fame 
La fratellanza tra gli uomini
Immagina tutta le gente
condividere il mondo intero...
 
Puoi dire che sono un sognatore
ma non sono il solo
Spero che ti unirai anche tu un giorno
e che il mondo diventi uno




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mercoledì 2 gennaio 2013

Stewardship del territorio

Vista del Velino a Rieti (dal Ponte Romano)



Alla vigilia di Natale sono riuscito a fare una visita che era da molto che mi ripromettevo: Rieti sotterranea. L'appuntamento al "ponte Romano", dove c'è una ventina di persone molte di Leonessa, qualcuna di Rieti stessa, io e Anna unici romani, pronte per il tour. Il biglietto è di 4 euro, una miseria. Bigliettaia e guida è Rita Giovannelli, che come scoprirò è l'ideatrice e l'animatrice del progetto. La visita si è rivelata un triplice viaggio: nello spazio, naturalmente, scendendo al di sotto degli edifici che affiancano via Roma; nel tempo, perché questa discesa ha svelato una storia che  è incorporata nella città, che dal di fuori è possibile solo intuire da labili indizi che un turista frettoloso non può percepire, e nel progetto stesso, nei valori, nell'energia e nella forza che esso esprime. Sono stati tre modi di accendere l'immaginazione, di capire la città e il territorio oltre l'attuale apparenza, di essere contagiati dall'amore per la città  e dalla sua energia. Solo un elemento di questa comprensione della città: dire Rieti vuol dire Salaria, la via consolare che la attraversa, vuol dire Velino, il fiume che forma il principale bacino idrogeologico degli Appennini, ora imbrigliato da dighe (come quelle sul Salto e sul Turano) o condotte di acqua (le sorgenti del Peschiera) che una volta qui formava un grande lago e che costituisce il principale subaffluente del principale affluente del Tevere, il Nera, dopo il salto di 145 metri delle Marmore.  Dire città è dire le sue acque, che possono essere le amiche e le nemiche del territorio. Viaggiare nel sottosuolo di Rieti significa viaggiare dentro questa simbiosi senza romanticismi, perché Rieti non suscita sentimenti romantici con la sua architettura severa, con i suoi bastioni calcarei a strapiombo su quella che una volta era un lago o nei periodi di secca un pantano. La nostra guida ci ha condotto anche dentro il progetto, non senza qualche insofferenza di alcuni visitatore. Questo viaggio è stato reso possibile solo grazie a un impegno appassionato di una persona che ha saputo accenderne tante altre ottenendo i permessi, i finanziamenti (scarsi, ovviamente), la buona volontà che permettessero gli scavi e l'organizzazione del progetto. Questa forma di imprenditorialità turistica capace di attivare l'ambiente e non solo di sfruttarlo, di valorizzare le tracce del passato rivitalizzando la memoria, ridando vita e prospettiva ai luoghi e alle loro popolazioni, tutto questo è "prendersi cura del territorio", un impegno che qualche volta in modo individuale, altre volte in forme più collettive, possiamo chiamare "stewardship del territorio". Quanti sono gli steward del territorio in Italia? Come li aiutiamo, come la società e le istituzioni riescono a valorizzare la loro azione spesso visionaria che non è mai fiammata di un momento ma impegno testardo nel tempo. Perché dire che la ricchezza dell'Italia sono i suoi beni naturali, archeologici, artistici, non basta. Non sono nulla questi "beni" se non trovano il loro steward, individuo o collettività,  che intorno ad essi sappia attivare il calore della memoria, dell'estetica, dell'immaginazione delle popolazioni. Le istituzioni a livello nazionale e a livello locale dovrebbero incentivare questa stewardship di singoli, gruppi e intere popolazioni.
Quante volte la signora Giovannelli, una tra i tanti, sarà stata tentata di arrendersi di fronte all'ottusità della burocrazia e alla ristrettezza di visione di chi detiene le risorse? E da dove ogni volta ha preso la forza di rilanciare, di uscire dalla sua solitudine? Chi grazie a lei ha avuto l'opportunità di dare il proprio contributo alla valorizzazione di una città  al margine delle rotte del turismo di massa e soprattutto di aiutare l'amore e la consapevolezza che la popolazione ha per il proprio territorio? Sarebbe bello raccogliere queste storie di stewardship, aprire  scuole di stewardship dove formare i giovani e innestare queste competenze su altre, aprire le istituzioni al calore di questa stewardship, far crescere le sue competenze, seminare il valore della stewardship condivisa, imparare ad amare e valorizzare il proprio territorio.
Per visitare virtualmente il progetto vedi www.rietidascoprire.it.


 



martedì 1 gennaio 2013

Primo gennaio 2013



Albert O. Hirschman

E' il primo anniversario di questo blog. Anche in chi si è stordito nel far festa (e di che poi?) vi è la sensazione che il passaggio di anno debba essere un momento di bilanci e di propositi. Normalmente sono bilanci e propositi "per burla", poco seri, perché siamo poco abituati a riflettere con intensità e serietà, siamo poco abituati a prenderci veramente sul serio. Dovremmo/dovrei esercitarci/mi a riflettere  quotidianamente, prendendoci cura di noi/me stessi/o, imparando ad essere amici di noi/me stessi/o. Se non ci esercitiamo quotidianamente non riusciamo a farlo neppure nel passaggio di anno. E se ci scopriamo incapaci di prendere degli impegni con noi stessi, poi, come potremo pensare che saremo in grado di prendere impegni con gli altri?
Questo blog "sottoilpelodell'acqua.blogspot.com" compie oggi un anno rompendo il muro del suono delle 3000 visite (3021). Aveva superato le mille visite il tre luglio. Il post  più visitato (59 visite) è stato quello intitolato "Felicità e gratitudine, quale rapporto?" del primo luglio, in cui accennavo, in modo abbastanza problematico, al rapporto tra felicità, benessere, fiducia e gratitudine, con un forte richiamo religioso rafforzato dal link a Mahalia Jackson "Just as I am" e dalle citazioni a Erickson, Konig e Seligman. E' un modo di impostare il  rapporto tra pensiero positivo, sentimento di gratitudine (valorizzazione del presente e di chi ci dona quotidianamente e di tutta la dimensione gratuita di ciò che siamo e abbiamo) e benessere non semplice, non facile. Il mio post era molto aperto e problematico. Non mi sento quindi toccato dall'attacco che recentemente è stato sferrato contro il pensare positivo, il positive thinking, da alcuni psicologi. Pessimism is Cool: il pessimismo è di moda, è il titolo dell'articolo del Wall Street Journal  al saggio di Collinson sulla Prozac Leadership. In Italia ne ha parlato Federico Rampini su La Repubblica del 20 dicembre scorso. L'attacco considera particolarmente l'uso del positive thinking fatto nel mondo delle imprese e della finanza, cui viene addebitata addirittura la crisi del 2008. E' una reazione sacrosanta, perché il "pensare positivo"  era diventata una forma di collasso del pensiero critico nelle organizzazioni e in alcuni ambienti professionali, dove si era creduto troppo alle profezie che si autoavverano: se tu credi che avrai successo, avrai successo; se tu assumi un atteggiamento perdente, sarai perdente. Sei tu l'artefice del tuo destino, non te la prendere con gli altri, non ti lamentare, cambia tu, pensa positivo! E se devo scegliere dei collaboratori o dei dipendenti, meglio che seleziono quelli che pensano positivo (e che non siano obesi o fumino). Chi non preferisce avere nel proprio gruppo una persona che pensa positivo, che reagisce in modo propositivo alle difficoltà, che è resiliente, invece di un pessimista e piantagrane? 
La moda del pensare negativo ha una ragione, come ce l'aveva la moda del pensare positivo. Il pensare positivo si presta ad un uso indebito, nel momento in cui è un autoaccecamente e un collasso dello spirito critico. Nei regimi totalitari coloro che non pensano positivo son bollati come disfattisti e traditori. Non è molto diverso se è il tuo capo (il leader prozac) che usa la tua capacità di autoinganno e di autocensura per procrastinare le conseguenze dei suoi sbagli. C'è molto totalitarismo nelle nostre organizzazioni e ci sono troppi yes men. D'altra parte far notare i segnali critici, deboli o forti che siano, è sempre faticoso e costoso, stare zitti è sempre più comodo, come gli studi sui rischi mettono in luce. Il pensiero positivo in questo senso puo essere un serio fattore di rischio.
Pensiero positivo e pensiero critico, quindi, non devono essere separati, pena una degenerazione  totalitaria del pensiero e dell'etica e una insensibilità organizzativa al rischio e al pericolo, ma anche al cambiamento e alle situazioni non previste. Il pensiero positivo ha bisogno del pensiero critico. Nel management si usa uno strumento, definito dall'acronimo SWOT, una matrice per procedere in modo equilibrato ad una valutazione della situazione (Strength, Weacknesses, Opportunities, Threats: Forze, Debolezze, Opportunità, Minacce). Il pensiero positivo vede solo le forze e le opportunità, quello negativo solo le debolezze e le minacce ambientali. Ovviamente occorre considerare tutti i quadranti della matrice per non perdere il contatto con la realtà, per essere realisti senza cessare di essere fedeli ai nostri Strength, ai punti di forza, ai valori, alle capacità, che ci rendono (come individui e anche come organizzazioni) unici. Ma la trasformazione degli Strength in Opportunities non è automatica, passa attraverso il costante monitoraggio critico delle nostre Weacknesses e dei Threads, delle minacce ambientali.  Monitoraggio costante, perché la valutazione di chi siamo, dove siamo, cosa facciamo, deve essere sempre dinamica, in quanto  viviamo effettivamente sempre in un ambiente riflessivo, di cui siamo "in qualche modo" gli attori.  Se usciamo da un approccio dopato all'empowerment, tipico del pensiero positivo acritico e conformista, possiamo cominciare a sperimentare un empowerment riflessivo, che cresce sulla terra fertile e mite della gratitudine e della riflessività. 
Per tutti questi motivi penso che tra pensiero "positivo", o psicologia "positiva" intesa come una sorta di igiene mentale dell'epoca del "benessere" e atteggiamento "apprezzativo" (appreciative) che sembra a prima vista esserne solo una variante, esista una differenza profonda. L'apprezzatività implica infatti  partire dai punti di forza, ma anche esercitare riflessività e  valutazione critica, ed è un concetto che ha delle valenze psicologiche, indubbiamente, ma soprattutto delle valenze etiche diverse da quelle del pensiero positivo. L'etica del pensiero positivo mi sembra slittare pericolosamente verso un'etica assolutista, il  pensiero unico e la mistificazione, mentre l'etica dell'apprezzatività è un'etica situazionale, dialogante, gentile, volta a valorizzare le differenze. La psicologia positiva è basata su un concetto delle strength (dei punti di forza) come fossero già delle opportunità di cui si ha il diritto di disporre. L'approccio appreciative invece considera le strength come dei talenti che ci sono affidati e che dobbiamo (per il nostro stesso benessere) valorizzare come beni non nostri, in un approccio non proprietario. 
Un altro spunto di riflessione mi viene dal ricordo di un importante pensatore (la parola economista è stretta per lui)  scomparso l'11 dicembre scorso: Albert O. Hirschman. Nel libro che più lo rese famoso anche in Italia (Exit, Voice and Loyalty, tradotto in Italia con Lealtà, Defezione e Protesta) egli offrì  un modello di analisi delle scelte e dei comportamenti economici e sociali complesso nelle implicazioni, ma  semplice e potente nell'impalcatura, utilissimo per studiare e comprendere la dialettica tra partecipazione attiva, e defezione del consumatore insoddisfatto. Erano gli anni '70 e allora si discuteva molto di queste cose. La voice, cioè la partecipazione critica, muove da un terreno appreciative, di fiducia, ma anche da una sottovalutazione dei costi che la partecipazione richiederà (la mano "nascondente" della partecipazione). L'approccio apprezzativo e la fiducia (che si può esprimere nella lealtà alla organizzazione o al dirigente o al partito o sindacato) inducono la sospensione del calcolo economico e inibiscono (fino a un certo punto) la capacità di valutare freddamente il rapporto costi-benefici. Ma è un deficit di razionalità? La partecipazione consiste in un deficit di razionalità rispetto al calcolo economico di mercato? Il dilemma è risolto da Hirschman considerando che quelli che in un determinato momento e una determinata situazione sono dei costi in un'altra sono in realtà dei benefici. La partecipazione in sé può essere  un beneficio in per chi partecipa, indipendentemente dai costi che comporta e soprattutto dai frutti della partecipazione. Partecipare è un costo che diventa beneficio. Ma la partecipazione senza possibilità di uscita (o con grossi ostacoli politici, economici, psicologici, all'uscita) può comportare una caduta di spirito critico, l'affievolimento della voice, anche a seguito degli investimenti che essa richiede e che portano a perseverare oltre l'evidenza in scelte che si rivelano sbagliate o non più adeguate proprie o del proprio capo o del proprio gruppo o della propria organizzazione. Mi sembra di scorgere in questo ragionamento considerazioni importanti per superare la polemica tra sostenitori del pensiero positivo e sostenitori del pensiero negativo -  o mi inganno? E' difficile che vi sia partecipazione fuori da un approccio apprezzativo, ma nello stesso tempo se ci si affida in modo acritico e non riflessivo al ricatto del pensiero positivo si diventa incapaci di apprezzare il valore e l'eccentricità della voice, delle informazioni che essa trasmette, delle prospettive che essa apre e si rischia il baratro o il declino, finché non è troppo tardi. 
In questo periodo di primavere, cioè di una nuova ondata di grandi mobilitazioni, e di crisi/cambiamento della politica italiana - tutto sta cambiando - queste riflessioni di fondo tornano di grande utilità per costruire una bussola.